Scopri perché questo simbolo unico e imperdibile continua a parlare al nostro tempo, tra proporzione, mito e rigore
L’Uomo Vitruviano di Leonardo: simbolo unico e imperdibile. Basta pronunciare queste parole per evocare un’immagine che, più di altre, ha saputo farsi ponte tra epoche, discipline e immaginari. Un corpo nudo, inscritto nel cerchio e nel quadrato, non è solo un disegno: è una dichiarazione spirituale e matematica sul posto dell’essere umano nell’ordine del mondo, una soglia tra misura e mistero.
Il foglio, fragile e vibrante, condensa il sogno rinascimentale di una conoscenza totalizzante: saperi tecnici e impulsi poetici, calcolo e respiro, ragione e incanto. Leonardo ascolta Vitruvio, lo traduce, lo contraddice talvolta, lo perfeziona, e in quell’ascolto mette a punto una lingua visiva che ancora oggi ci parla, con una forza che né il tempo né la riproduzione infinita hanno indebolito.
Non è un’icona innocente. È una mappa del possibile, un diagramma del corpo e della mente, una miniatura cosmica. Guardare quel profilo e quelle braccia distese è entrare in un teorema al tempo stesso rigoroso e musicale, dove la geometria cinge la carne senza imprigionarla. È l’arte che si fa scienza, e la scienza che si fa arte.
– Origine e senso di un’icona
– Il quadrato e il cerchio: grammatica della proporzione
– L’Uomo Vitruviano di Leonardo: simbolo unico e imperdibile nell’immaginario moderno
– Le misure della vita: dal testo di Vitruvio alle note di Leonardo
– Conservazione e rarità: la fragile permanenza della carta
– Riflessione finale
Origine e senso di un’icona
L’Uomo Vitruviano nasce nel clima esperienziale e audace del tardo Quattrocento, quando l’arte si pensa come scienza e la scienza si affida al vedere. Leonardo, a Milano intorno al 1490, lavora sui fogli come su piccoli laboratori: anatomia e architettura, idraulica e pittura, diventano capitoli di uno stesso libro. Dentro questo libro, il corpo umano è una pagina centrale, un campo di prova in cui verificare la coerenza del mondo. Nel foglio celebre, penna e inchiostro traducendo la voce antica di Vitruvio, il cerchio e il quadrato accolgono il profilo di un uomo e lo misurano: è una composizione che non tollera l’improvvisazione, e tuttavia respira.
Secondo le Gallerie dell’Accademia di Venezia, che custodiscono il foglio originale e ne attestano la straordinaria rarità espositiva, si tratta di una opera su carta databile attorno al 1490, con annotazioni di Leonardo in scrittura speculare che interpretano e ampliano il testo vitruviano. L’istituzione veneziana, da anni, difende la necessità di un equilibrio tra il desiderio pubblico di vedere e l’urgenza conservativa: la carta, fragile, soffre la luce; l’inchiostro, delicato, chiede silenzio.
In questo equilibrio si gioca molto della fortuna dell’opera: il fatto che sia “imperdibile” non viene dai soli manuali di storia dell’arte, ma da una consapevolezza diffusa che quel foglio sia un nodo tra molte narrazioni. È insieme diagramma tecnico e manifesto culturale; pagina di scienza e poema sull’umano. L’iconicità nasce dalla densità di significati in poco spazio, dalla proporzione come linguaggio del mondo, dalla centralità del corpo come specchio della natura.
Guardare l’Uomo Vitruviano significa scoprire una grammatica di relazioni che attraversa il Rinascimento e arriva fino a noi. E il “noi” contemporaneo vi trova qualcosa di urgente: una misura che non imbriglia, una geometria che sostiene, un disegno che invita a pensare con la forma. Questo è il senso che un’icona merita: non la ripetizione, ma la rivelazione.
Il quadrato e il cerchio: grammatica della proporzione
Il quadrato e il cerchio non sono cornici: sono architetture della mente. Nel foglio, il quadrato stabilisce un piano, un recinto di razionalità; il cerchio, invece, suggerisce un moto, un cielo di continuità. Il corpo al centro li congiunge entrambi, come se l’umano fosse ponte tra terra e volta celeste. La proporzione scorre tra questi due poli: la larghezza delle braccia, la posizione del ombelico come centro del cerchio, l’allineamento dei piedi sul lato del quadrato. Non c’è imposizione, c’è congruenza.
Leonardo non ripete Vitruvio, lo interpreta. Se per l’architetto romano il corpo esprime un canone per edificare templi, per il pittore-scienziato il corpo diventa il tempio stesso di una conoscenza concreta, empirica. Le braccia estese equivalgono all’altezza: è un enunciato che diventa forma, una equazione che si fa immagine. Il gesto dell’uomo — braccia e gambe in due pose sovrapposte — mostra il movimento come parte della misura: il corpo non è statico, la proporzione è dinamica.
Questa grammatica è anche un atto poetico. Nel cerchio avvertiamo il suono della perfezione, nel quadrato la quiete dell’equilibrio. Il corpo, come un compasso dischiuso, svela la corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo: nell’ombelico il centro, nel plesso la soglia, nella testa il vertice. Ogni punto si fa lettera di un alfabeto invisibile, dove la matematica è un canto basso che sostiene la melodia.
Eppure, proprio in questa apparente perfezione, Leonardo conserva l’umano. Non dissimula la varietà, bensì la convoca. Le sue note segnalano differenze, correggono, osservano. Tende l’orecchio al reale: misurare è anche vedere, e vedere è esercitare una pietà rigorosa verso le cose. Il cerchio e il quadrato diventano così segni di un’etica della forma, dove il rigore non esclude la cura.
Focus — 1490, Milano: Leonardo tra arte e scienza
Intorno al 1490, la Milano di Ludovico il Moro è un laboratorio politico e artistico. Leonardo vi trova committenze e interlocutori. Progetta macchine, studia canali, osserva corpi. L’Uomo Vitruviano appartiene a questa stagione di intensità interdisciplinare: il disegno non nasce in uno studio isolato, ma nel crocevia di pratiche quotidiane e letture antiche, di atelier e biblioteca.
La “misura” che il foglio celebra è figlia di quella città: un equilibrio fra la utilità delle opere (ponti, fortificazioni, spettacoli) e la esattezza del pensiero. La bottega, il cortile, la corte, sono luoghi di trasmissione e confronto: nel gesto di scrivere in “specchio” Leonardo custodisce un metodo, una cadenza mentale, non un segreto oscuro.
Il 1490 è anche il tempo di una responsabilità: dotare il sapere di strumenti perduranti. Il foglio è uno di questi strumenti, una prova che l’arte può stabilire regole che non irrigidiscono, bensì allargano il campo dell’esperienza.
L’Uomo Vitruviano di Leonardo: simbolo unico e imperdibile nell’immaginario moderno
Se oggi l’immagine è ovunque — nei manuali, nelle scuole, nei musei, nelle campagne visive — è perché ha esteso la sua funzione: da canone tecnico a segno identitario. L’Uomo Vitruviano è diventato un emblema della modernità, chiamato a dire ciò che l’epoca crede di sé. In alcune interpretazioni è simbolo della fiducia nell’uomo; in altre, monito contro l’hybris. È stato adottato su copertine, loghi, e persino sulle monete: la 1 euro italiana lo reca come dichiarazione che la misura dell’umano è la misura della polis.
Ma “imperdibile” non significa ovvio. I suoi sensi sono plurali: c’è chi vi vede la promessa di una armonia universale, chi la nostalgia di un mondo compiuto. Per i moderni, abituati a misure di precisione e a incertezze globali, quell’equilibrio affascina perché non esclude la variabilità. L’uomo di Leonardo si muove, si sovrappone, si adatta al cerchio e al quadrato senza spezzarsi: è un invito a una flessibilità rigorosa.
Il simbolo resiste perché sa parlare a diversi linguaggi. All’ingegnere, offre un teorema; al poeta, un’epifania; allo storico, una chiave di stile. Non è un feticcio: è un dispositivo di pensiero. Si fa struttura che ordina e immagine che illumina, convocando insieme matematica e poesia. Nell’immaginario moderno, così saturo di segni, trovare un segno che non invecchia è raro. Qui la rarità è nella qualità del problema che l’opera pone: come abitare la forma senza impoverire la vita.
È unico perché mette in crisi l’idea stessa di unicità: il disegno è replicato infinite volte, e la sua aura sembra restare intatta. Imperdibile perché ci ricorda che un rapporto giusto tra parte e tutto è ancora la nostra scommessa più alta.
Le misure della vita: dal testo di Vitruvio alle note di Leonardo
Il titolo “vitruviano” segnala la genealogia: Vitruvio, nel De Architectura, descrive proporzioni del corpo come fondamento dell’architettura. Leonardo, leggendo e misurando, formula una serie di rapporti e correzioni, facendo scorrere la esperienza sulle parole dell’antico. Le sue annotazioni, in scrittura speculare, sono un mosaico di osservazioni che tengono insieme laboratorio e biblioteca.
Tra i rapporti più noti, comunemente associati al foglio, si leggono misure che rendono sensibile il rapporto tra segmenti del corpo e altezza complessiva. La tradizione delle edizioni e delle traduzioni riporta — semplificando — proporzioni che, con prudenza, possiamo evocare come guida:
– La lunghezza delle braccia spalancate equivale all’altezza dell’uomo.
– La distanza dal gomito alla punta della mano costituisce un quarto dell’altezza.
– La larghezza delle spalle è approssimativamente un quarto dell’altezza.
– La distanza dal naso alla base del mento è un terzo della lunghezza della testa; dalla radice dei capelli alla base del mento è circa un decimo dell’altezza totale.
– Il piede corrisponde a un settimo circa dell’altezza; il palmo e il cubito compongono una serie di moduli che rapportano mano, piede, braccio all’insieme.
Queste proporzioni, spesso citate e talvolta schematizzate oltre misura, hanno senso solo se pensate come medie empiriche e come strumenti di progetto. Leonardo non pretende di cancellare la variabilità dei corpi: la ingloba. L’unità modulare — il palmo, il piede, il cubito — costruisce una metrica che consente di disegnare e costruire con una regola elastica.
È interessante notare come il foglio proponga due centri: l’ombelico, centro del cerchio, e i genitali (o la base del ventre) come fulcro del quadrato. La doppia centratura indica officiosamente una doppia natura: celeste e terrestre. La geometria diventa così una liturgia: ci si dispone in modo diverso a seconda dello spazio in cui si abita — quadrato come piano della città, cerchio come volta del cielo.
La forza del canone, qui, non è dogmatica. È un invito a comprendere la misura come relazione: tra segmenti del corpo, tra corpo e spazio, tra individuo e comunità. In questo, la lezione di Vitruvio e la mano di Leonardo si toccano e si superano: l’architettura che nasce dal corpo non è solo il tempio; è la casa del pensiero.
Conservazione e rarità: la fragile permanenza della carta
La potenza simbolica del foglio spesso fa dimenticare la sua vulnerabilità materiale. Carta, inchiostro, tracce. Il supporto vive, soffre, si ossida. La conservazione è una scienza delicata, un patto tra desiderio pubblico e responsabilità. Le istituzioni custodiscono l’opera come si custodisce un bene effimero: calibrando luce, umidità, temperatura; limitando le esposizioni per non consumare ciò che, per definizione, resiste poco. Questa attenzione ha prodotto, negli ultimi decenni, un regime di visibilità parco ma necessario.
La rarità espositiva accresce l’aura. Non per feticismo, ma per educazione dello sguardo: impariamo che non tutto è sempre disponibile, e che l’incontro con un originale chiede tempo, viaggio, attesa. Nel 2019, le discussioni intorno a un possibile prestito hanno reso evidente quanto un foglio su carta sia un bene sensibile: tra scienza della conservazione e desiderio di celebrazione, si è trovato un equilibrio sotto condizioni rigorose. Questo dibattito, più che la cronaca, ci consegna una verità: la fragilità è parte della bellezza.
Conservare significa anche raccontare bene. Le riproduzioni digitali, oggi, permettono un accesso ampio e democratico, ma non sostituiscono la presenza del materiale. Le fibre, la pressione del tratto, i pentimenti, l’ariosità del margine: elementi che si percepiscono davvero solo dal vivo. Non si tratta di opporre digitale e reale, ma di integrarli: le tecnologie educano, la visione diretta trasforma.
Infine, la rarità è una responsabilità collettiva. Riconoscere l’opera come bene comune implica rispettarne i tempi e i limiti. Il “imperdibile” che la cultura ci consegna non è un diktat di consumo: è una soglia a cui ci accostiamo con gentilezza, ricordando che la cura rende possibile la memoria.
Riflessione finale
La sfida che il foglio pone è attuale: come stabilire regole che abbraccino la vita senza tradirla? L’Uomo Vitruviano, con la sua proporzione e la sua poesia, suggerisce una via. Misurare per capire, non per ridurre. Disegnare per conoscere, non per imporre. Correggere per accogliere, non per escludere. Il quadrato e il cerchio come alfabeti del pensiero, il corpo come sintesi di intelligenza sensibile.
Divina Proporzione nasce in questo spirito. Dove arte, scienza e spiritualità si incontrano, la forma non è un limite: è un passaggio. La geometria è canto, la misura è gentilezza, la conoscenza è un respiro lungo. Nel contemplare il foglio di Leonardo, accettiamo la proposta di un mondo ordinato dalla relazione più che dalla rigidità: la bellezza come intelligenza e l’armonia come conoscenza.
Così il disegno che misura il mondo ci ricorda che il vero centro non è l’ombelico né il vertice della testa, ma l’atto continuo di mettere in rapporto. Tra noi e gli altri, tra natura e città, tra ragione e stupore. Questa è la fedeltà più alta al Rinascimento: non ripetere una formula, ma rinnovare il desiderio di una forma che, nel misurare, libera.


